Self cleaning e interdittiva antimafia.

Sommario: 1. Premessa – 2. Interdittive antimafia e misure di self cleaning – 3. Considerazioni conclusive

1. Premessa

La pronuncia in commento presenta diversi profili di interesse, in quanto il Consiglio di Stato, analizzando la questione ha ritenuto elusiva del provvedimento di interdittiva antimafia la misura di self cleaning posta in essere, da un’associazione, successivamente al provvedimento antimafia.

Il Consiglio di Stato, adito dopo lo svolgimento di un giudizio innanzi al T.A.R. per la Campania sede di Napoli, ha espresso dubbi in merito alla compatibilità delle statuizioni del giudice di primo grado che annullava la conferma dell’interdittiva a seguito di operazioni di self cleaning stabilendo che le misure – seppur aventi come fine quello di eludere la normativa antimafia – da sole non risultavano abbastanza adeguate a sorreggere l’annullamento provvedimento prefettizio.

Nello specifico, l’associazione resistente si avvaleva di un consulente legale condannato per il reato di corruzione elettorale ordinaria oltre ad avere nella stessa compagine associativa dei dipendenti vicini agli ambienti malavitosi: da ciò discendeva l’emanazione del provvedimento di interdittiva.

Di conseguenza, la società, in risposta all’adozione della misura interdittiva, attuava delle misure volte a stabilire una netta censura dei rapporti contestati, revocando l’incarico di rappresentanza legale precedentemente conferito e licenziando i dipendenti inquinati, chiedendo poi un aggiornamento del provvedimento interdittivo.

Ciononostante, per i giudici di Palazzo Spada, la mera censura dei rapporti non ha comunque garantito una totale estraneità dalla stessa dagli ambienti deviati, in quanto tale agire è contrastante con la normativa della documentazione antimafia contenuta nel libro II, capo II del D.lgs. 159/2011[[1]] ed è quindi è legittimo il diniego di aggiornamento del provvedimento interdittivo opposto per elusività della misura di self cleaning.

2. Interdittive antimafia e misure di self cleaning

L’art. 84, comma 3 del D. lgs. n. 159 del 2011[[2]], riconosce quale elemento fondante dell’informazione antimafia la presenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”[[3]].

Il legislatore, in riferimento ad una situazione potenzialmente dannosa, ha concesso alle prefetture il beneficio di emanare misure di prevenzione basate, anche, sulla sola potenzialità di condizionamenti[[4]] e perciò il Prefetto, in forza di un pregresso accertamento di pericolosità, agisce in chiave probabilistica[[5]], formulando un giudizio di tipo preventivo-prognostico: una volta accertato il pericolo può procedere ad interdire l’impresa interrompendo ogni rapporto con le pubbliche amministrazioni.

Nel caso di specie, i giudici di Palazzo Spada, seppur concordi col Tar nel ritenere che ciò che occorre verificare, nel caso di adozione di misure di self cleaning, non è lo scopo soggettivamente perseguito dall’ente attinto dall’informativa e dai suoi esponenti, bensì l’effettiva idoneità delle misure stesse a recidere quei collegamenti e cointeressenze con le associazioni criminali che hanno fondato l’adozione della precedente informazione antimafia, contrariamente a quanto assume lo stesso giudice di primo grado ritengono, però, che nella fattispecie siano stati individuati gli elementi in base ai quali dovesse ritenersi persistente il condizionamento.

Sul merito, la Sezione ha chiarito in ordine all’elusività del self cleaning, sostenendo la tesi secondo cui già ab origine l’amministratore della società destinataria dell’interdittiva avrebbe potuto e dovuto conoscere il ruolo e la figura complessiva del consulente, peraltro facilmente riconducibile ad ambienti inquinati, ed è proprio tale atteggiamento che ha spinto il giudice di secondo grado a ritenere elusiva la misura adottata.

Occorre ricordare che, il fondamento dommatico che sorregge l’intero impianto del sistema preventivo antimafia trova espressione nella formula del “più probabile che non” che opera valutando il rischio di alterazione alla luce di una regola di giudizio di tipo probabilistico, vale a dire, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso. In tal senso, il criterio del “più probabile che non” si pone in una veste proteiforme di regola, garanzia e strumento di controllo[[6]].

Ciò posto, la presenza di dette personalità ambigue, seppur rimosse, costituiscono un dato ancora attuale che pienamente giustificano la valutazione, compiuta dalla Prefettura in ordine a quegli elementi sintomatici e indiziati del probabile coinvolgimento dell’associazione in situazioni limite e ragionevolmente, dunque, il Prefetto ha ritenuto che fosse ancora “più probabile che non” la vicinanza della società agli ambienti della criminalità organizzata; non è certamente l’allontanamento, intervenuto a soli pochi giorni di distanza dall’adozione della stessa interdittiva, a dare piena garanzia dell’effettiva netta cesura dai contesti mafiosi ed in tale contesto, l’organo periferico del Ministero dell’Interno, effettuando una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, ha ritenuto “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa”.

Ciò premesso, il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un semplice sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del D. Lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali “unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”.

Sul tema, il Consiglio di Stato ha rimarcato più e più volte la propria posizione in ordine alle condotte sintomatiche caratterizzate da elementi in parte tipizzati ed in parte lasciati al libero apprezzamento discrezionale, ma che in comune devono avere la concordanza degli elementi indizianti, cosi come prevista dall’art. 2729 c.c.

 3. Considerazioni conclusive

Orbene, il consolidato indirizzo interpretativo dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui alcune operazioni societarie possono disvelare un’attitudine elusiva della normativa antimafia ove risultino in concreto inidonee a creare una netta cesura con il passato continuando a subire, consapevolmente o non, i tentativi di ingerenza ben si prestano ad essere adattate al caso in questione [[7]].

Ha ancora chiarito la Sezione [[8]] che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di “tentativi” di infiltrazione mafiosa, ha fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati”, ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

La P.A., invece, in ossequio ai principi di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito[[9]].

In ultimo, giova sottolineare come la funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, dovrà arrestarsi [[10]].

[[1]]Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 – Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136.

[[2]] L’art. 84 comma 3, D.lgs. 159/2011, recita testualmente che “l’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4.”

[[3]] Sul punto, Consiglio di Stato sez. III, 30 gennaio 2019, n. 759.

[[4]] Cfr. Consiglio di Stato sez. III, 6 gennaio 2019, n.1553.

[[5]] Quanto alla concezione probabilistica, il Consiglio di Stato nella sentenza n. 4483 del 2017 stabiliva che caso di adozione di misura interdittiva “l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale”.

[[6]] Il Consiglio di Stato ha affermato che “l’interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la necessaria prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali sia plausibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un possibile condizionamento da parte di queste. Pertanto, ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2342/2011; n. 5019/2011; n. 5130/2011; n. 254/2012; n. 1240/2012; n. 2678/2012; n. 2806/2012; n. 4208/2012; n. 1329/2013; sez. VI, n. 4119/2013; sez. III, n. 4414/2013; n. 4527/2015; n. 5437/2015; n. 1328/2016; n. 3333/2017, 2343/2018, 26/2017, n. 1923/2017 e n. 3173/2017).

[[7]] Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6707; 7 marzo 2013, n. 1386.

[[8]] Cons. St., sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.

[[9]] Cass., Sez. Un., 4 gennaio 2018, n. 111.

[[10]] Cons. St., sez. III, 6 marzo 2019, n.1553.

https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1214-self-cleaning-e-interdittiva-antimafia

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